La filatura e la tessitura erano tra i compiti che competevano in modo esclusivo alle donne. Esse ricavavano dagli steli delle piante o dalla pelliccia degli animali le fibre con cui ottenevano i fili che incrociavano e intrecciavano per produrre le stoffe.
Nei castellieri non si sono trovati resti di stoffe ma molti attrezzi che ci permettono di risalire alle attività di preparazione delle vesti e all’abbigliamento.
La filatura, mediante la quale la fibra si trasformava in filato, era una delle attività principali delle donne: essa è attestata da una considerevole quantità di fusaiole di terracotta, piccoli pesi da fuso di grandezza diversa a seconda della finezza del filo che si voleva ottenere (fusi e conocchie di legno non si sono conservati).
Molte grosse ciambelle di terracotta, disposte in pila, una sull’altra, sono indizio della presenza di un telaio di legno, del tipo verticale in uso nell’antichità: erano necessarie per tenere tesi i fili dell’ordito, tra i quali, mediante una spoletta di legno, veniva fatto passare il filo orizzontale della trama. Che le vesti venissero cucite ce lo indicano i numerosi aghi di bronzo usati certo anche per cucire pelli.
La lana o il lino e altre fibre vegetali come la canapa e l’ortica erano avviluppati sulla rocca o conocchia, un arnese costituito da un’asta, con un disco alla base, in legno o, in rari casi, in metallo che veniva retto con una mano. Con l’altra veniva stirata la fibra che era fissata alla sommità del fuso, un bastoncino in legno alla cui base era inserita la fusaiola, ossia un piccolo peso in ceramica, osso o pasta vitrea.
I vasi sono tutti modellati a mano, spesso con la tecnica definita “a colombino” consistente nel sovrapporre dei rotoli di argilla cruda che poi venivano uniti insieme e plasmati fino a conferire al vaso la forma desiderata. Anse e prese venivano in genere lavorate a parte e poi applicate.
Il tornio – una ruota che gira velocemente su un perno – viene introdotto piuttosto tardi nelle nostre zone (non prima del VII sec. a. C.), però sembra probabile che sia stata usata precocemente una sorta di piattaforma girevole che facilitava e migliorava la produzione.
Nei nostri castellieri non si trova ceramica dipinta ma la decorazione consiste spesso in fasci di linee ottenute a pettine o in motivi geometrici incisi con uno strumento a punta oppure impressi sull’argilla non ancora indurita mediante una cordicella ritorta.
I vasi, una volta essiccati all’aria, venivano cotti in forni piuttosto rudimentali, a catasta oppure in fossa: questi modi arcaici di cottura, con scarsa possibilità di regolare l’afflusso dell’aria, sono responsabili della colorazione spesso irregolare, dal rosso arancio al grigio-nerastro, delle superfici.
Questi resti, insufficienti a dimostrare l’esistenza di un’officina metallurgica organizzata, ci permettono di supporre che nei villaggi si eseguissero riparazioni di manufatti prodotti altrove e si producessero piccoli attrezzi per far fronte alle necessità locali.
La lavorazione degli oggetti sembrerebbe limitata a martellature rudimentali, soprattutto nel caso di lesine ed aghi. Tra una martellatura e l’altra erano necessarie ripetute ricotture per far cristallizzare la lega e renderla meno fragile.
L’agricoltura era certamente l’occupazione più importante ed è strettamente legata ai fattori climatici e ai tipi di terreno presenti in un determinato territorio. Nella pianura friulana, sebbene sia esistita una certa variabilità nelle colture da un sito all’altro, le piante sfruttate appaiono nel complesso piuttosto omogenee.
Nell’età dei metalli le specie coltivate sembrano essere cereali come orzo, farro, farricello e frumenti nudi, legumi come pisello, lenticchie, cicerchia, ervo e forse veccia.
Il bosco offriva anche numerose varietà di frutti selvatici, il fogliame e le ghiande di cui si nutrivano il bestiame e la selvaggina che era in modo occasionale cacciata per ottenere, oltre alla carne, pelli e corna.
Sui battuti pavimentali e nelle aree in cui venivano gettati i rifiuti è stata recuperata una piccola quantità di semi carbonizzati.
Le specie coltivate per l’alimentazione presentano una notevole varietà. Tra i cereali sono attestati orzo, miglio; tra le leguminose, lenticchie e favino, piuttosto comuni in Friuli e Veneto.
La dieta era completata da frutti e da bacche che venivano raccolti nell’ambiente naturale circostante. Tra i frutti selvatici le còrniole erano ricercate forse per le loro proprietà terapeutiche e per ricavarne una bevanda fermentata.
La piccola serie di indizi raccolti ci documenta dunque su una quantità di attività di sussistenza – dalla semina alla manipolazione del cibo – che altrimenti sarebbero per noi perdute.